Per la Cassazione è cessione di azienda
Questa volta la Cassazione si esprime in senso favorevole alla riqualificazione in cessione d’azienda, diversamente da quanto affermato dalla sentenza n. 2054/2017.
Per la Suprema Corte ( sent. n. 3562/17) è legittima l’operazione di riqualificazione con la quale l’Agenzia delle Entrate aveva tassato come cessione d’azienda (richiedendo l’imposta di registro proporzionale) un’operazione di conferimento d’azienda seguito dalla cessione delle quote della conferitaria.
L’art. 176 comma 3 del TUIR esclude l’elusività dell’operazione di conferimento d’azienda seguito dalla cessione di quote; in tal modo risulta legittimando il risparmio fiscale che viene conseguito dai contribuenti mediante la conversione della plusvalenza da cessione d’azienda in plusvalenza da cessione di partecipazione.
Si verifica quindi una distorsione:
- da un lato, nell’ambito dell’imposizione diretta, una determinata operazione è ritenuta “esclusa” dall’ambito di applicazione dell’elusione;
- dall’altro, invece, ai fini dell’imposta di registro , la stessa operazione è considerata potenzialmente elusiva.
Questa contraddizione viene peraltro superata dalla Cassazione che nega , ai fini dell’imposta di registro, che l’operazione di riqualificazione in cessione di azienda del conferimento seguito da cessione di quote , sia fondata sul principio antielusivo.
Per la Corte l’art. 20 del DPR 131/86 non è una norma antielusiva, ma solo una norma che consente all’Agenzia di riqualificare gli atti “in ragione del loro «intrinseco», cioè in ragione degli effetti «oggettivamente» raggiunti dal negozio o dal «collegamento» negoziale”.
Nessuna incoerenza nell’ordinamento, in quanto, sia nell’ambito dell’imposizione diretta che indiretta, non vi è “elusione” in caso di conferimento d’azienda e cessione di quote.
Questa nuova posizione della Cassazione non appare del tutto convincente.
In un primo tempo la giurisprudenza aveva avallato la riqualificazione di operazioni come questa proprio basandosi sulla funzione antielusiva dell’art. 20 (tra tante, Cass. nn. 6835/2013 e 5877/2014).
Successivamente si è negato che la riqualificazione di tali operazioni implicasse di applicare il principio antielusivo, ritenendo che potesse fondarsi sulla mera norma interpretativa recata dall’art. 20 del DPR 131/86 ( sul presupposto che tale disciplina consentirebbe di valorizzare il collegamento negoziale tra molteplici e separati atti, senza necessità di fare appello all’abuso del diritto) (Cass. nn. 9582/2016, 8542/2016 e altre)
Dopo l’entrata in vigore dell’art. 10-bis della L. 212/200, l’art. 20 del DPR 131/86 non può più essere considerata norma antielusiva.
Ma questo non significa che, mutando nome all’art. 20, si possa continuare a utilizzarlo esattamente allo stesso modo.
L’art. 20 è norma che impone di interpretare gli atti sulla base degli effetti giuridici che essi realizzano, vale a dire gli effetti che il diritto civile riconduce agli atti; ma tali effetti sono ben altra cosa rispetto agli “effetti economici” degli atti medesimi.
Ebbene qui sta proprio l’equivoco; nella sentenza in commento, si legge che l’art. 20 impone di qualificare l’atto o il «collegamento negoziale» in ragione del loro «intrinseco», cioè degli effetti «oggettivamente» raggiunti dal negozio o dal collegamento negoziale.
La Corte fa implicito riferimento agli effetti economici, atteso che gli effetti giudici di un atto di conferimento e cessione di quote non sono corrispondenti a quelli di una cessione di azienda.
E’ solo valorizzando gli effetti economici dell’operazione di collegamento negoziale si può realizzare la riqualificazione e tale operazione sta al di fuori dei confini dell’art. 20 del DPR 131/86 che, potendo oggi avere solo più funzione di norma di interpretazione degli atti, consente di valutare solo gli effetti giuridici degli atti portati alla registrazione, senza andare oltre essi.